1) Chi è Alessandro Gandolfi
Sono un giornalista, con una formazione giornalistica e non fotografica, che negli anni (anni già della maturità, a trent’anni) ha deciso che si poteva raccontare il mondo anche con le immagini, e non solo con le parole.
Che si poteva fuggire la routine dell’ufficio redazionale e girare il mondo. Che si poteva anche vivere di precarietà e insicurezza, se queste ti permettevano di vedere paesi nuovi e culture diverse. Che era il mio sogno fin da bambino.
Così mi sono messo a realizzare reportage fotografici, ed è quello che faccio da circa 12 anni.
Nel frattempo è nata un’agenzia, Parallelozero, nella quale sono socio, e l’interesse nei confronti del viaggio in sé è leggermente sfumato in favore di una ricerca fotogiornalistica diversa, più legata al racconto di storie sociali.
2) Chi è il fotoreporter Alessandro Gandolfi (e quali sono i tuoi fotoreporter – o le loro filosofie – di riferimento)
E’ un fotoreporter che ama il colore, che è cresciuto negli anni ’80 leggendo il “National geographic” (quando ancora non esisteva la traduzione in italiano) e che ritiene il fotogiornalismo abbia un ruolo fondamentale nel mondo dell’informazione.
Raccontare storie attraverso le immagini è probabilmente più efficace di quanto lo si possa fare con il testo (senza contare il video, linguaggio sempre più presente nel mondo giornalistico, ma con il quale non mi sono ancora misurato). Alessandro Gandolfi è un fotoreporter curioso del lavoro dei colleghi, che osserva le fotografie dei maestri classici contemporanei ma che butta l’occhio spesso anche al passato: un vecchio fotografo di Life, John Shearer, diceva che “la gestualità e l’espressione umana sono l’anima della fotografia: il trucco non sta nella luce o nella velocità dell’obbiettivo o della pellicola, ma nella capacità di cogliere l’istante.
Cogliere lo spirito di qualcuno in quella scatola magica è splendido…”.
3) Il reportage più faticoso-pericoloso-intrigante-magico…
Il più pericoloso sicuramente quello scattato nel 2011, durante il viaggio a Misurata da Bengasi, durante la rivoluzione libica.
Ero da un po’ di settimane in Libia per conto del settimanale tedesco “Die Zeit” e insieme al giornalista tedesco si stava cercando di capire cosa fare di nuovo. Da Bengasi non si poteva raccontare molto di più di quello che avevamo raccontato nelle settimane precedenti, e così ci venne un’idea un po’ pazza: quella di salire a bordo di una barca piena di ribelli che da Bengasi era diretta a Misurata. Nessuno l’aveva ancora fatto. Misurata era una città assediata dalle truppe di Gheddati, che bombardavano il porto e sparavano alla popolazione civile utilizzando cecchini appostati sui palazzi più alti.
Il viaggio di andata e ritorno, sempre in barca, con un soggiorno di 48 ore in città, durò quattro giorni.
E fu come immergersi in profondità in un pericoloso inferno fatto di morti, feriti, ospedali affollati, sparatorie per strada e scoppi di bombe. Per me, che non sono un fotografo specializzato in conflitti, fu un’esperienza molto forte.
Forte fu anche l’esperienza a Gaza nel 2010, la prima volta che sono stato nella striscia (sono poi tornato altre due volte). Ma il soggiorno a Gaza fu diverso: c’era un’idea ben precisa (raccontare la vita dei surfisti in una zona tesa come quella) e in quel momento c’era una situazione di relativa pace. Fu piacevole immergersi in una realtà diversa, inaspettata.
4) Quello che invece ti ha piu’ deluso.
Per il tipo di lavoro che faccio – il fotoreporter freelance – l’idea che hai in mente, la storia che vuoi raccontare (e poi vendere ai giornali), è fondamentale. Importante quindi è spesso partire con le idee chiare, avere già in mente cosa si vuole fare, preparare il terreno, i contatti etc. E se dedichi tempo a ciò che fai, se lo fai con dedizione e impegno, di solito riesci a raggiungere l’obiettivo e a portare a casa il servizio. Le delusioni arrivavano a volte, soprattutto in passato, quando magari partivo senza un’idea chiara in testa e tornavo con servizi che non erano né carne né pesce…
5) Quando (e perchè) hai scelto di raccontare anche la guerra…
Non sono un fotogiornalista di guerra e in genere non sono un fotogiornalista che segue l’attualità.
Per quello ci sono i fotografi delle grandi agenzie, che distribuiscono le loro immagini in tutto il mondo, o i fotografi che sentono dentro di sé la missione del conflitto, quelli che ovunque scoppia una guerra prendono, partono e vanno.
Ne conosco tanti, e li ammiro per quello che fanno. Io non sono così, cerco piuttosto storie alternative, personali, lontane dai luoghi d’attualità, storie che raccontino una faccia della realtà, spesso una faccia inaspettata e mai raccontata.
…e quando e perchè una foto diventa documento privilegiato di una certa realtà, un intero racconto
Ci sono foto che da sole esprimono un mondo. Riescono a cogliere l’essenza di ciò che vuoi raccontare.
Ma più spesso il racconto si sviluppa attraverso una serie di più immagini, scattate in diversi momenti, in diversi luoghi, a diversi soggetti. Le immagini contribuiscono così a narrare i vari aspetti di una realtà, sono i tasselli di un puzzle più complesso che rappresenta la storia che si vuole raccontare.
La successione fotografica diventa così reportage giornalistico.