Si offre agli occhi educato e disarmante. Il sipario nei toni del beige, ruvido o levigato, si apre su armonie di figure come segni, elegantissime e inquiete.
C’è Campigli alla Fondazione Magnani Rocca (da oggi e fino al 29 giugno). Un Massimo Campigli raccontato in ottanta opere (quasi tutte degli anni Cinquanta con incursioni nel prima e nel dopo) che moltiplicano, come nel piacere di un gioco, quel numero (otto) che nelle tele è simbolo, figura e paradigma.
La donna, quindi. Le donne. Ripetute, moltiplicate, frammentate. Come in un ossimoro dolcissimo, in una magica conciliazione, queste protagoniste sono carne astratta, gelido tormento, enigma (ir)risolto. Figure, tracce, manichini, volti a mezzobusto. Donne avvolte dalla cornice di un teatro, affollate di sproporzioni e ripetizioni di sguardi. Semplici cenni geometrici in dissoluzione. O invece sole, di spalle, nella luce di colori che abbracciano e dissolvono i contorni.
Già. I colori. Effimeri o intensi, sempre indimenticabili nella trasparenza color carne o nell’intensità del bruno o del turchese…
Vi diranno che risuona in tutto questo il fragore di un lontano passato e di una vicina grandezza: terre etrusche e cubismo, colori d’Egitto, classicità…
Ma sono parole e rumori che turbano il silenzio di un artista che è profondissimo enigma dell’altro, muto e profondo piacere per gli occhi.
Rita Guidi