A molti mesi dall’uscita, la sua (eccezionale) autobiografia “Open” è ancora in classifica
Ogni caduta è un regalo prezioso: ti fa salire un po’ piu’ in alto, a vedere meglio la vita. Per questo Agassi vince. Sul podio un ragazzo che è diventato uomo: potrebbe esserci risultato piu’ grande?
A farcelo conoscere, di nuovo in campo, ma sulle righe di questa straordinaria autobiografia, è questo suo “Open” (Einaudi, 504 pagg, 20 euro). Scritto a quattro mani con J.R Moehringer (sì, il Pulitzer e autore della propria autobiografia “Il bar delle grandi speranze”), al quale Agassi dedica un meritatissimo tributo nei ringraziamenti finali, questo viaggio nella memoria di un campione diventa presto un romanzo (di formazione) attualissimo e presente. La storia di un uomo che non si può non ascoltare. Perché (solo) il tennis non c’entra, anche se ce n’è tanto, in ogni capitolo se non in ogni pagina. In gioco (!) qui, c’è il tormento e la debolezza di un ragazzino che non sa (e pure non vuole) dire no ai diktat del padre che lo vuole tennista e campione. Il dolore di un’infanzia imprigionata dal rigore degli allenamenti, da macchinari infernali (quella inventata dal padre per “sparargli” le vellutate e odiate palline gialle, la chiama “il drago”), da una scuola troppo distante da casa che è un’altra dolorosa prigione, da uno sport che odia. Già.
“Odio il tennis” ripete Agassi, in un infinito ritornello che suona come una liberazione. Confessione tardiva delle tante bugie consegnate alla penna dei giornalisti. Odia il tennis e per questo indossa il proprio talento con i colori di una sfida: i calzoncini di jeans, i capelli lunghi e (s)colorati, gli atteggiamenti estremi. “L’immagine è tutto”, gli fanno dire le pubblicità e i giornalisti, che così possono meglio vendere i prodotti e le notizie. Non capiscono che in quell’apparire vuole nascondersi. Negarsi. Non essere. Dire qualcosa che assomigli a un no in quella gabbia di terra rossa. Insieme pugile e adolescente. Poi tutta quella sofferenza trova un senso, una strada: con l’aiuto della squadra (amici/famiglia assai piu’ che allenatori) che si sceglie intorno. E con la forza di chi vuole crescere. “Dio vuole che cresciamo”, scrive. Per questo vuole una scuola in un quartiere difficile: per far crescere i ragazzi alla vita, come a lui – che ha rifiutato la scuola, che non ha conosciuto l’abbraccio affettuoso del padre – non è stato possibile. Cita ( e conosce) Mandela, Agassi, come anche l’Ulisse di Tennyson (“Molto perdemmo, ma molto ci resta…”) quando il racconto si avvia alla fine di una carriera straordinaria di trionfi e abbandoni, rientri e sconfitte. Il rimbalzo continuo tra i match in campo e quelli personali (divorzio con Brooke Shields e matrimonio con Steffi Graff compresi). Cadute preziose, per fargli vedere le cose da un poco piu’ su. Per scoprire la gioia di una famiglia e della solidarietà. Per insistere a giocare, fino a non reggersi piu’ sulla schiena: “ho una famiglia e una scuola da mantenere”, dice. Soprattutto gioca perché finalmente è lui che ha scelto di farlo: perché “anche se non è la tua vita ideale – conclude – puoi sempre sceglierla. E quale che sia la tua vita, sceglierla cambia tutto”.
L’Agassi Prep conta cinquecento studenti (ottocento in lista d’attesa): qualcun altro, grazie a lui, ora lo farà.
R.G.