DEDICATO A DINO CAMPANA – IL MONDO DEL POETA RICOSTRUITO NEL ROMANZO DI LAURA PARIANI. A cura di Rita Guidi



Ciò che la vita corrompe: le illusioni bruciate, le attese negate, da imprecare a Leopardi come avesse ragione.

Trasuda di questo dolore così vicino alla rabbia, il mondo di Dino Campana – ingabbiato nel manicomio di Castel Pulci – e restituito da Laura Pariani in “Questo viaggio chiamavamo amore” (Einaudi, 189 pagg., 19 euro). 

La scrittrice e studiosa (fresca del Premio Carlo Levi) dedica infatti una suggestiva ricostruzione della torbida ed emozionante personalità dell’autore dei “Canti Orfici”, scavando e immaginando, in questa sorta di diario, tra i giorni arroventati della dannazione. Un viaggio. Dal tempo immobile della contenzione, allo spazio dilatato del ricordo e del nuovo mondo: ricostruzione di una memoria, pretesa e intesa come guarigione nelle periodiche e puntuali sedute dallo psichiatra che lo aveva in cura. Una parete e una sedia, lo sguardo di Campana è muto come le sue labbra, ma la mente vola: una mosca diventa l’amico Regolo, figlio del Po, che mantiene un’antica promessa (“Quando per me verrà l’ora (…) io rinasco (…) moscone nero (…) Eccosì, verrò a trovarti, ma mi raccomando non mi ammazzare quando mi vedrai”); o il vento conduce ai sentieri selvaggi della pampa, affollata di bellezza e libertà. 

Da Marradi a Montevideo all’Argentina, la Pariani ricuce un tempo velato dal silenzio e dal dubbio, lo attraversa con i suoni dei Canti, ne ipotizza figure, amori, avventure. Dal viaggio in nave, tra gli umori dei migranti e l’immediata amicizia con Ippolito, atteso dal fratello Gottardo a Montevideo (prima àncora d’oltreoceano per il nostro), all’incanto biondo di una ragazzina da seguire con una carovana attraverso l’infinito orizzonte del Sud America.

Perché c’è anche l’amore sognato e vivo in queste pagine. E l’irresistibile forza di occhi che sanno guardare altrove, oltre l’ovvietà senza stupore che appanna la ‘normalità’ della vita (esilaranti e geniali le lettere al Direttore de “La Fiera Letteraria” o a quello dell’Istituto Nazionale di Statistica).

“In che consisteva la mia stranezza? – scrive e ricorda Campana nelle parole della Pariani – Nella convinzione che della cosiddetta realtà non posso saper altro che il mio modo di percepirla (…) Ho sempre avuto il senso del raro e dell’effimero. E se la parola stupido viene da ‘stupor’, io sono il massimo concentrato di stupidità”. Un condannato: dalla banalità del mondo.

Rita Guidi
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